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Midnight (e non solo) a Parigi
Che Parigi esista e qualcuno scelga di vivere in un altro posto nel mondo sarà sempre un mistero per me!
(Midnight in Paris)
Gil Pender, non appena ha messo piede a Parigi, ha capito che di lì non se ne sarebbe più andato. E come biasimarlo, Gil non è Inez che compra mobili per la sua nuova casa a Hollywood, e non è nemmeno Paul che fa lo pseudo intellettuale sfoggiando la sua erudizione con un virtuosismo che non può che far provare nostalgia per un mondo che non c’è più. E Gil, infatti, è questo: un perenne nostalgico del passato. E non a caso sta scrivendo un libro sulla storia di un negozio nostalgia. Tutto quadra. Ognuno di noi, spesso, si aggrappa a un passato che stenta a lasciare andare. Nel caso di Gil, quel passato è la Parigi degli anni Venti, gli anni della Generazione perduta, come dirà Ernest Hemingway in Festa mobile, la Parigi casa di scrittori, artisti, pittori, musicisti, la sola dove «possiamo vivere felicemente» oltre alla propria casa. Insieme a loro, e a Parigi, Gil ripercorre le strade notturne di una città il cui fascino non si è mai perduto, in cui il passato diventa quasi sostanza, immagine, verità. Eccomi allora a prendere le vesti di Gil Pender, da vera nostalgica, e ripercorro le strade di Parigi, in un gioco di chiaroscuri, notte e giorno, i suoi monumenti e i luoghi frequentati da quella generazione che perduta poi non fu poi così tanto.
Parigi di giorno
Parigi di giorno non ha cielo limpido, qualche nuvola sparsa, un po’ di foschia, la pioggia forse incombe. In ogni caso, mi immergo nell’atmosfera di una narrazione. Parigi di giorno si narra così. Un turista per caso si mette a camminare, è Gil, sta assaporando l’odore mattutino dei croissant freschi d’uscita in una delle tante boulangerie che si possono incontrare lungo le strade. Ne prende uno (un croissant, sia chiaro, non una brioche, ricordate, che qui se no vi portano un pan bauletto), e mentre dà il primo morso passa uno del luogo (sarà?), riconoscibile per quel tratto distintivo che Gil, e io, pensavamo appartenessero solo ai film: una baguette sotto l’ascella. Gil sorride: questa è Parigi. Ultimo boccone del cornetto, Gil attraversa (con la calma che lo contraddistingue) il ponte che lo porta alla prima tappa della Parigi illuminata, il suo cuore, l’isola che racchiude: Ile de la Cité. Victor Hugo, in Notre-Dame de Paris, scrisse che è «la testa, il cuore e la spina dorsale di Parigi», culla delle origini della città sorta sulle rive della Senna, che oggi assume un tono ancor più nostalgico, per via della Cattedrale di Notre-Dame, «una sinfonia di pietra», in fase di restauro dopo l’incendio del 2019. Oggi, non potendo visitarla, Gil si attarda davanti alle transenne che, per non deludere il turista, hanno messo in scena, a fumetti, la storia del restauro che si accingono a fare (bella trovata non vi pare?).
Ma l’Ile non è solo la Cattedrale, è anche casa della Sainte Chapelle, una cappella in stile gotico fatta costruire da Luigi IX e, a parere di Gil, un vero capolavoro da guardare, grazie alle sue vetrate colorate e illuminate dal sole. Dicono che la ragione di queste vetrate, e delle vetrate in generale nel Medioevo, fosse di tipo educativo: erano la metafora di grandi libri illustrati in cui il popolo, essenzialmente analfabeta, poteva leggere le storie della Bibbia. Dopo aver assaporato la storia biblica dalla A alla Z, Gil ritorna a camminare nella luce (un po’ biblico anche questo). Un altro ponte e si trova catapultato in un quartiere dai toni più colorati e variegati: è il Quartiere Latino, simbolo della vita universitaria parigina, un tempo impartita solo in latino (da cui il nome), che ospita una delle università più antiche e rinomate d’Europa: la Sorbona. Gil, per sua fortuna, si è laureato da un po’, ed è scrittore, per cui, prima di passare alle aule, non può non sostare a una delle librerie più suggestive della città: Shakespeare & Company, aperta da George Withman nel 1951: entrando, al piano superiore, si trova persino una stanza in cui gli aspiranti scrittori potevano anche dormire in cambio di una mano in libreria, la lettura di un libro e la scrittura di una pagina autobiografica. Gil, nel dubbio, vi appone una firma sul libro degli ospiti (varrà comunque per considerarlo scrittore?).
Non una baguette ma con un libro sottobraccio, Gil, costeggiando la Senna, e tra i tanti mercatini che la abitano (le sponde della Senna sono Patrimonio dell’Umanità UNESCO), è pronto per ricaricarsi le batterie culturali con qualche museo. Penso che Parigi sia una delle città con più musei da visitare: bisogna scegliere, e Gil ha scelto: oltre al Louvre con la sua piramide in vetro di I. M. Pei, tappa obbligata per ogni turista alle prime armi parigine, attraversati i Giardini delle Tuileries, si arriva al famoso museo in cui Paul, il noioso Paul, dà lezioni di erudizione a Inez e presenti: il Museo de l’Orangerie, famoso per la stanza ovale che ospita le Ninfee di Monet. Rimanendo ad ascoltare le parole di Paul si può andare anche al Museo Rodin, il cui giardino è pieno delle opere dello scultore, tra cui svetta la Porta dell’Inferno (incompleto) e, più famoso, il Pensatore. Aveva ragione la guida, ovviamente, mica Paul. Rimanendo in zona e in ambito museale, il Museo d’Orsay, famoso per i dipinti di impressionisti (Monet, Degas, Cezanne) e, soprattutto, L’origine del Mondo di Gustave Courbet, la cui storia è un vero intrecciarsi di aneddoti. Sempre perché Paul non ne ha mai abbastanza di mostrare la sua sconfinata saggezza, si annovera tra le sue conoscenze anche il Centro Nazionale di Arte e Cultura George Pompidou, nel cuore del quartiere Marais, riconoscibile per via della sua struttura a tubi multicolore e condutture a spirale (indovinate chi l’ha progettato? Renzo Piano e Richard Rogers) e al cui interno è ospitata una delle collezioni d’arte moderna più grandi (60.000 opere) al mondo, inferiore solo al MoMa di New York. Ma per Gil, il museo del cuore non può che essere uno solo, e si trova, non a caso, nel cuore della parigina artistica e letteraria, a Montmartre. Qui, quasi invisibile per via della sua poca appariscenza (non è un palazzo alla Louvre, tanto meno alla Pompidou), si trova il Museo di Gustave Moreau, pittore simbolista e precursore del Decadentismo e Surrealismo, museo che occupa la stessa casa che abitava l’artista e che conserva oltre 14.000 opere, molte delle quali (Gil se ne è accorto) sono incompiute.
Montmartre, d’altra parte, è la Butte, la collina, piccolo borgo, cuore romantico e artistico di Parigi che, con le sue stradine a zig-zag, la musica e l’arte dei ritratti in Place du Tetre, è immagine mito della Parigi del turista. E infatti, un bel po’ turistico lo è, purtroppo. Ma, nonostante ciò, dalla vista dalla Basilica del Sacro Cuore, ai vigneti che digradano dal Lapin Agile, ai cabaret che diffondono musica e atmosfera, non si può non percepire una sorta di nostalgia, proprio quello che ora sente Gil, al ricordare che in queste vie dall’aria bohemien son vissute alcune delle menti più influenti della cultura mondiale. Di qui, Gil, lasciata Inez a casa, tornerà in altri orari, più bui e lontani nel tempo. Per ora, se ne ritorna al piano terra, alla Senna, e una volta attraversata la Rue de Rivoli, con le sue numerose gallerie coperte (come la Gallerie Vivienne, o il Passage Choiseul), Place de la Concorde (un tempo luogo per bagni di sangue rivoluzionari e dove al centro si trova un obelisco risalente a 3300 anni fa), ancora gli Champs-Elysees (voluti da Luigi XIV per portare il verde dei giardini inglesi), Gil arriva a un altro fulcro cittadino: l’Arc du Triomphe con i dodici viali che da qui si irradiano, che nel 1806 Napoleone commissionò per onorare la vittoria ad Austerlitz. Di qui, nel tempo, sono passate vari manifestazioni di gloria e di sconfitta, dalle ceneri dello stesso Napoleone al corteo funebre di Victor Hugo, dagli eserciti conquistatori come Prussiani e Tedeschi ai liberatori francesi guidati da Charles de Gaulle. Da qui, inevitabile, si staglia la vista del simbolo stesso della città e del Paese: la Tour Eiffel. Gil la sta guardando dal lato Trocadero, dal Palais de Chaillot. Progettata da Gustave Eiffel nel 1887 in occasione dell’Esposizione Universale del 1889, la demolizione della Tour Eiffel era prevista dopo vent’anni (e persone come Guy de Maupassant ne sarebbero state assai contente. Si dice che lo scrittore pranzasse al secondo piano del ristorante Le Jules Verne, dentro la Torre, unico luogo della città in cui la torre non era visibile). Ovviamente ciò non avvenne. Tuttavia, la vista, pur spettacolare, non è la migliore e, contando la fila chilometrica e costosa da dover affrontare, la Tour Eiffel, dopotutto, è bello guardarla mica starci sopra. Molto meglio, secondo Gil, è la Torre di Montparnasse, che certo non è un gioiello da ammirare (ma non ci serve guardarla), ma che con i suoi cinquantotto piani (per un totale di 210 metri), la più alta d’Europa, offre un panorama unico e a 360 gradi dell’intera città. Gil è emozionato: da qui vede persino la Basilica del Sacro Cuore. Si sente a casa. Proprio sotto, nel quartiere omonimo, si trova uno dei cimiteri della città, il Cimitero di Montparnasse, che offre (se si è in grado di trovarli in quel labirinto) casa alla maggior parte dei poeti, scrittori e artisti della Parigi amata da Gil (Gil è riuscito per ora a scovare Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Guy de Maupassant, Jean Seberg, Charles Baudelaire, Brancusi) pur essendo uno dei più piccoli della città (altri cimiteri quello di Montmartre e quello di Pere-Lachaise). Ora che è in quota, sempre con la pazienza che lo contraddistingue, Gil si appresta a visitare il simbolo cardine del quartiere, «tempio per gli uomini illustri, da una nazione riconoscente», il Panthèon, in cui, nella cripta, si trovano le tombe di Voltaire, Rousseau, Emile Zola, Marie Curie, Alexandre Dumas. È proprio qui, fuori dal Pantheon, che Gil, dopo una giornata piena e sfiancante, decide si riposarsi. Si siede su alcuni scalini e contempla. Proprio in questo momento, scocca la mezzanotte, e una carrozza stile calesse compare dalla stradina al lato. Si ferma: gli dicono di salire. E il tempo è già cambiato.
Parigi di Notte
Man Ray: «Un uomo innamorato di una donna di un'altra epoca... io ci vedo una fotografia» (Man Ray), «Io ci vedo un film» (Buñuel), «Io ci vedo un insormontabile problema» (Gil Pender), «Io ci vedo… un rinoceronte» (Dalì).
(Midnight in Paris)
Una tipica conversazione, al tavolo di un locale, in cui ci si poteva imbattere nella Parigi dell’epoca. Scrittore, artisti, poeti si ritrovavano ogni sera a discorrere, quella Generazione perduta che, puntualmente, Gil, da vero nostalgico, vorrebbe ritrovare. E incredibilmente ci riesce. La carrozza lo ha raccattato dalle scalinate del Pantheon e, in direzione della casa di Gertrude Stein, mecenate dei tanti intellettuali del tempo, Gil conosce i posti local in cui andare a festeggiare, bere e mangiare. Quali migliori ciceroni se non gli abili organizzatori di feste, così li chiama Gil, come i Fitzgerald? Tra questi, l’immancabile Le Couple, la brasserie per eccellenza, che ha ospitato i maggiori intellettuali del Novecento, come Hemingway, Jean Cocteau, Samuel Beckett e Salvador Dalì e che ancora oggi, nonostante il tempo, conserva il suo arredamento Art Déco, il pavimento a mosaico cubista e le trentatré colonne dipinte dagli artisti che vivevano lì vicino. Montparnasse era infatti diventato, a ridosso della Prima guerra mondiale, il centro artistico e letterario di un’intera generazione, quando molti artisti lasciarono Montmartre per trasferirsi qui (tra questi Giorgio de Chirico e Amedeo Modigliani). Questo spiega come mai, molti dei locali gareggiano nell’elencare i nomi dei grani artisti che hanno preso anche solo un caffè dalle loro parti. La più conosciuta, forse, oltre a Le Couple, è la Closerie des Lilas, ritrovo preferito di Hemingway, che proprio qui ha scritto gran parte della sua Fiesta. All’interno, Gil si gode un buon bicchiere di vino immerso nei tavoli con tanto di targhetta con i nomi degli intellettuali che erano soliti sedersi in quel posto. Lui, ovviamente, ha scelto Hemingway. All’Auberge de Venise Hemingway invece ha incontrato per la prima volta il grande Scott Fitzgerald. Le Select, invece, è il primo caffè di Parigi a rimanere aperto tutta la notte. Il Restaurant Polidor, dove Gil incontra Hemingway in Midnight in Paris, è un ottimo bistrot ottocentesco in cui gustare classici come il boeuf bourguignon. Da Montparnasse a Montmartre, per rimanere in tema artistico-letterario, Gil si prende un piatto a un mulino, il Moulin de la Galette (il famoso mulino del dipinto di Renoir). In Place du Tetre, un po’ troppo turistico forse, ma una Croque Monsieur o una zuppa di cipolle da Le Sabot Rouge non può mancare. Proprio qui, dopo una bella cena, è di dovere fermarsi per assistere a uno dei tanti spettacoli di cabaret: oltre al costosissimo (e ormai poco autentico) Moulin Rouge (per quanto costosissimo), il Lapin Agile era frequentato da Modigliani e Picasso. Nei dintorni della Tour Eiffel, invece, se non vi angosciate della sua vista come Maupassant, Le Fointaine de Mars, il Café des Musees o ancora il Glou, tutti bistrot tipici che offrono le pietanze caratteristiche della città. Nel Quartiere Latino, Le Jacobine offrono piatti tradizionali come il fois gras e magret di canard, mentre a Chatelet il Petit Bouillon Pharamond è una specie di trattoria versione francese con piatti a prezzi bassissimi, quantità ottime e bontà pure. Per una classica fonduta, o in generale per assaporare i formaggi di cui la Francia tanto si compiace, Le Chalet Savoyard a la Bastiglia può fare al caso, non per Gil però, che, invece, da vero bohemien e nostalgico, si è subito rintanato al Maxim’s, in Rue Royal, pronto per un secondo giro di balli con la sua bella Adriana, prima di rendersi conto che, di nuovo, è finito in un altro tempo: la Belle Epoque (proprio qui nel film).
E infatti, è tempo di smettere di aggrapparsi al passato, al negozio nostalgia, Inez non sarà il futuro, ma la Belle Epoque non c’è più, gli anni Venti ancora profumano tra le strade parigine e, dopotutto, anche la Paris odierna non è niente male.
La nostalgia è negazione, negazione di un presente infelice. E il nome di questo falso pensiero è: sindrome epoca d’oro, cioè l’idea errata che un diverso periodo storico sia migliore di quello in cui viviamo. Vedete, è un difetto dell’immaginario romantico di certe persone che trovano difficile cavarsela nel presente.
(Midnight in Paris)