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Passo dopo passo... verso Santiago
Si scorge sempre il cammino migliore da seguire, ma si sceglie di percorrere solo quello a cui si è abituati
(Il cammino di Santiago, Paulo Coelho)
È il giugno del 2018 quando la me del tempo, stanca dell’ennesima scelta universitaria sbagliata e paralizzata dall’ennesimo senso di colpa per una relazione appena conclusa, decide di volersi prendere del tempo per sé. Per riflettere, dice sempre la me del 2018, per rinascere. Sono uscita di casa e sono andata a comprare la guida del Cammino di Santiago di Compostela. Era una delle cose che avevo segnato nell’elenco Cose da fare prima di. Un’estate senza lavoro e senza esami davanti, non vi era occasione migliore per segnare una tic su un punto dell’elenco e, al tempo stesso, ricostruirsi, rigenerarsi, ricordarsi di sé. Scelsi il Cammino francese, più per sentito dire che per una scelta pensata, quello più conosciuto e descritto, per me al tempo praticamente l’unico. Ho scoperto lungo il cammino, incontrando altri pellegrini, provenienti da altre partenze, che il francese era solamente il Cammino principale, il più famoso, il più “cool”. Comprai la guida e mi iscrissi a Babbel per imparare la lingua. Nella mia ricostruzione, era tassativo partire da sola e non rifugiarmi nella mia confort zone stando solamente con italiani. E di italiani ce ne sarebbero stati parecchi. Delle trenta tappe, 781 chilometri a partire da Saint Jean Pied du Port, al di là dei Pirenei, a Santiago e a Finisterre, al di qua del versante, mi decisi per gli ultimi 150 chilometri. Il mese, settembre. Studiai il cammino, non mi allenai (pensavo che aver fatto dieci anni di scoutismo erano più che sufficienti… pensavo) e comprai il biglietto per Madrid. Di lì un autobus mi portò alla mia partenza, O Cebreiro, la prima tappa della Galizia. Nonostante fossi sola, mi piacque notare nell’autobus che molti di noi andavano verso lo stesso obiettivo, lo notavo dagli zaini pieni, le scarpe comode, l’eccitazione nel volto: «Me gustan tus zapatos!» mi disse una ragazza, che conobbi poi essere Angela, «Eh?» risposi io. Forse lo spagnolo non lo avevo poi imparato così bene.
Partenza
Erano le sei del pomeriggio quando siamo arrivate a destinazione. Angela mi ha portato al nostro primo albergue, rifugio. Ho capito lì quanto poco mi fossi organizzata. E non mi dispiacque. Ero partita così, senza sapere nulla e senza pretendere nulla. Ma menomale che qualcuno sapeva e pretendeva, e aveva deciso di prendermi sotto la sua ala. A 1.3000 m di altezza, cosparso di pallozas (le case dei pastori), entrammo nell’ostello, il primo della Xunta de Galicia, e lì ricevetti il mio primo timbro sulla Credencial (Credenziale), una sorta di documento diploma che avrebbe attestato il cammino avvenuto. Da quel primo timbro all’ultimo, a Santiago, ogni giorno, ogni tappa, che fosse una sosta a un bar lungo la strada o al successivo albergue, chiedevamo il timbro, il sello, caratteristico del luogo, quasi un autografo e una foto ricordo allo stesso tempo del nostro tragitto. Alla fine del cammino, grazie a questo passpartout, si riceve la vera e propria Compostela, il “diploma”. Superato il mio primo check-in, insieme ad Angela andammo a farci un giro del nostro primo luogo galiziano. Terra celtica al centro della penisola, siamo salite a 1370 metri, che è il punto più alto del Cammino francese in Galizia. La vista, al tramonto, pur avvolta nella nebbia, ci indicava il percorso che avremmo affrontato il giorno dopo.
O Cebreiro – Triacastela (20,9 km)
«Volevo riscoprire la me stessa di un tempo. Da anni ormai lavoro in un ufficio, in mezzo al caos della città… facevo sempre la stessa cosa, vedevo sempre le stesse persone…».
Maria si aggiunse al duo il primo giorno. Anche lei, come Angela, era più grande di me (Scoprì presto che il periodo da me scelto era quello dei grandi, e non dei giovani, che era agosto). Maria voleva scoprire la sé stessa di un tempo, io invece volevo scoprire quella che non ero ancora riuscita a diventare. Ma non si trattava di divergenza, erano due visioni apparentemente opposte che nel Cammino avevano trovato un centro comune, un istinto e motivo per cambiare, che fosse verso il prima o il dopo, il Cammino ci avrebbe comunque portato avanti, verso un obiettivo concreto, Santiago. Il prima non importava, era lontano, astratto, e ora noi cercavamo il concreto, la terra, la strada. Ci svegliammo all’alba, anche se, al vedere le stanze, vuote, era già tardi per i veri esperti pellegrini. Che non eravamo noi. Preparate alla veloce, una colazione spulciata (quella vera si faceva solo più tardi, lungo il cammino, nei bar), uscimmo nel buio: un cippo di pietra, con conchiglia e una freccia gialla segnavano il conto alla rovescia: 151 km da Santiago. La conchiglia, la concha, l’avrei vista molto spesso nei giorni a venire, sia sui cippi che si succedevano ogni 500 metri, sia sugli zaini dei pellegrini (e presto sul mio): la leggenda narra che erano le conchiglie che i pellegrini, arrivati a Finisterre, raccoglievano lungo la coste per portarle poi a casa come prova, una sorta di Credencial prima del tempo. Ci mettemmo in marcia, noi e gli altri pellegrini. In quella che da molti è considerata l’Irlanda di Spagna, la Galizia, movemmo i nostri primi passi, tra il verde dei pascoli, il saliscendi delle colline e le chiese che accompagnano i borghetti lungo la strada. La tappa al bar, verso le undici, era una vera e propria colazione, con tanto di uova, bacon, pane e, ovviamente, il sello. Da O Cebreiro a Triacastela, l'obiettivo del giorno, ci mettemmo circa otto ore, con tanto di pausa e a un passo sereno (chi ci metteva fretta dopo tutto?). Passammo il tempo a parlare, a conoscerci, a salutare i viandanti, io col mio spagnolo sempre più sicuro, anche se un po’ sbilenco, loro sicure e preparate sul tragitto. Arrivammo nel pomeriggio, ad accoglierci il menù del pellegrino tipico: si mangiava sempre all’arrivo, una cena che era insieme anche pranzo e merenda, alle cinque del pomeriggio. Il nome del paese, Triacastela, viene dai tre castri, villaggi, celtici, che lì un tempo sorgevano. Andammo alla ricerca di un albergue. Una caccia più che una ricerca. Una cosa che imparai quel giorno, e i successivi, era che con gli albergue bisognava fare attenzione. C’era chi si prenotava in anticipo, negli albergue privati, loro si riconoscevano lungo la strada dall’andamento, sempre lento, tranquillo. Avevano la casa e la pappa che gli aspettava, non sarebbe andata da nessuna parte. Chi invece se la rischiava negli albergue pubblici senza prenotazione erano più frenetici, allo scorrere del tempo, i loro passi erano brevi e concisi. Noi facevamo parte di questi.
Triacastela – Sarria (28,9 km)
Sulla guida che avevo comprato c’era scritta questa frase che subito mi colpì: «Sul Cammino, dicono gli esperti, non si è mai soli, anche quando intorno non si vede nessuno». Mi piaceva l’idea di essere arrivata sola, ma di essere circondata da persone come me o, almeno, come me in quel preciso momento di tempo e di luogo. Vi era l’idea che, nonostante non si parlasse con tutti i passanti, nonostante non si potessero conoscere tutti, nonostante io avessi deciso di non voler stare con gli italiani, in ogni caso, lungo la strada, cippo dopo cippo, sello dopo sello, le persone e i volti iniziavano a essere riconoscibili, familiari. Le ondate più o meno si ripetevano, i chilometri giornalieri erano più o meno simili, i gruppi umani anche. Divenne naturale, nei giorni, incontrarsi con i volti, salutare i nuovi con un sorridente Buen camino, parlare per qualche chilometro con qualcuno che non avrei visto mai più. Tutto come se fosse la cosa più ovvia e naturale che si potesse fare. Quanto mi sembrava lontana nel tempo e nello spazio casa mia…
Partimmo alla nostra alba, due nuovi amici spagnoli si erano aggiunti alla combriccola, Oscar di cinquant’anni, Antonio, di settanta (ebbene sì). Loro non avevano gli zaini, scoprì che alcuni si facevano (c’era il servizio apposito) spedire lo zaino da una tappa all’altra. Per me scout fu sconvolgente, davvero si poteva non portare lo zaino in una route? E, del resto, significava dover essere molto più organizzati di quello che ero io, con solo una guida (che non aprii più) come studio alle spalle. Il tragitto Triacastela – Sarria, 28,9 km, 5 ore 30 (non è vero), colazioni, pause e selli, fu l’ultima tappa della parte “tranquilla” del Cammino, ancora immersa nel verde, tra le querce ombrose e anche un po’ di asfalto, tra ruscelli, castagni e distese erbose. Era un paesaggio a me del tutto nuovo, abituata come ero, e sono ancora oggi, alle alture delle Alpi e, all’opposto, alle rive del mar Ligure. Qui era essenzialmente un’eterna pianura, il cui variare era definito dal variare del colore e degli alberi, non dell’orizzonte. Me ne sarei ricordata poi, alla fine, sul confine di Finisterre. Io, Angela, Maria, Oscar e Antonio arrivammo in tempo, alle 18, per il menù del pellegrino e, soprattutto, per trovare un posto in uno degli albergue. Chi lavava i suoi vestiti (c'era sempre una lavanderia o un lavandino), chi si prendeva una birra di fine giornata. Ricordo ancora me stessa, quel giorno, svenuta senza neanche togliermi le scarpe. Li riaprì nel buio, che era l’alba, del giorno successivo. Pronta per un nuovo Buen camino.
Sarria – Portomarin (18 km)
«Mi sono reso conto che la prima volta, in bicicletta, non mi era rimasto niente. Camminando, passo dopo passo, hai la possibilità di guardarti intorno, parlare con i pellegrini che camminano accanto a te, vedere il panorama. In bici tutto è più veloce, pensi solo ad arrivare al prossimo albergue. Prima non avevo un diario di viaggio. Ora sono arrivato quasi all’ultima pagina».
Oscar iniziò a raccontarmi la sua storia quel giorno e ne rimasi affascinata. La sua doppia esperienza mi sembrò una bellissima metafora, la lentezza e la velocità, quello che io lì andavo ricercando, la possibilità di pensare, di rallentare. Di guardarmi intorno. Anche io avevo il mio diario di viaggio, che ogni giorno riempivo di una pagina. La mia esperienza in poche righe. Non ho mai fatto giri in bici, e durante il Cammino si incontrano i ciclisti che, veloci, passano e superano, li senti agli urli dei tanti pellegrini «Bici!» e le ondate di viandanti che si spostano ai lati urlando Buen camino.
Da Sarria il Cammino si trasformò, non era più una storia di raccoglimento, se mai lo fosse stata, ma di incontro, sempre più intenso, talvolta eccessivo. A partire da qui, al km 100 del cippo stellato, iniziava il Cammino del “minimo indispensabile” per ricevere la Compostela (200 km invece in bici). Da qui iniziarono ad affollarsi il percorso, i bar, gli albergue, tutto. Mi ricordo che, a un certo punto, lungo questo ultimo tratto, mi incrociai persino con una scolaresca. Li riconobbi per l’insegnante capofila con bandierina e un ragazzo, al fondo, con uno stereo sulla spalla. Mi chiesi come fossero giunti alla decisione di fare la gita scolastica qui, sul Cammino. Questa tappa, dopo le prime, rappresentò per il nostro gruppo italo-spagnolo una tregua, solo 18 km e poca salita, per un totale di cinque ore di cammino. E l’arrivo, Portomarin, lo ricordo come il borgo più affascinante. Lì, una volta arrivata, non mi addormentai. Passammo rìo Miño attraverso il suo ponte ed entrammo in un paesino reticolato di portoci e piazzole e al cui centro si trovava la chiesa di San Juan. Salutammo le ondate di pellegrini ormai nostri amici, ne incontrammo di nuovi, sorseggiando una Estrella al tramonto. In quel momento, riconosco, compresi che, nonostante le mie aspettative fossero di una classica, forse stereotipica, pellegrina sola e silenziosa, il Cammino, in altre forme, mi stava mostrando un altro lato del riscoprire sé stessi. E poi, chi aveva detto che per riscoprirsi dovessi necessariamente starmene per conto proprio?
Portomarin – Palas de Rei (25 km)
Il risveglio di Portomarin non fu di augurio. Non appena mi alzai e misi i piedi a terra, lo capii. Avevo preso la piaga del Cammino. La tendinite. Simbolo della noncuranza, di vesciche lasciate macerare e scarpe non adatte (le mie erano essenzialmente scarponi da alta montagna, non da pianura sterrata), quel giorno lo passai come in un temporaneo inferno. E, per la prima volta, camminai sola. Non riuscivo a reggere il ritmo dei miei compagni pellegrini, ogni passo era ferita aperta e dolore profondo. Dissi loro di non preoccuparsi, mi facessero sapere dove si fermavano. Prima o poi sarei arrivata. Partii, con le Birckenstock e la sofferenza in tarda mattinata, un passo alla volta, direzione Melide. Fu un cammino lento, tra boschi di eucalipto e salite moribonde (per me). Il programma doveva essere di 30 chilometri quel giorno, dieci ore di cammino (per i piedi normali), con 666 metri di dislivello di salita. Mi arresi. Angela e Maria, Oscar e Antonio erano arrivati a destinazione, anche loro tardi. Io, all’ombra di una disperazione senza fine, riuscii a raggiungere una tappa, Palas de Rei che, nonostante la sconfitta, mi sorprese. Non tanto la sua bellezza, che di bellezza non si poteva parlare, ma per i nuovi incontri. Dopotutto, la mia ondata pellegrina era a Melide, qui, invece, si trovava un’altra ondata, altri pellegrini che non avevo ancora incrociato e molti di loro provenienti da altri cammini, diversi da quello francese. È lì che conobbi Lorenzo, dal Cammino del Nord (che inizia a Irun). Il suo resoconto mi colpì, pareva essere stato da tutt’altra parte. Mi parlò di silenzio, paesaggi deserti e sterminati, di surf (a Bilbao), di mancanza di segnaletica (si era persino perso). «Quando ho vista la festa che c’era qui mi son sentito stordito» mi disse. Dopo un mese in cui lui era l’unico essere vivente, arrivare al Cammino francese doveva essere un’esperienza destabilizzante. Da quel giorno, Lorenzo si aggiunse al gruppo, il primo italiano, oltre a me.
Palas de Rei – Pedrouzo (33,2 km)
La mattina dopo, ancora un po’ indolenzita, mi feci forza e, insieme a Lorenzo, partimmo alla volta di Melide, in Coruña, per raggiungere gli altri. Qui mangiammo quello che, a quanto pare, era considerato il cibo tipico: il polpo. Che il polpo sia il cibo tipico di un paese al centro del niente, senza mare né montanga, non l’ho capito. Ma, in effetti, il polpo di Melide non era affatto male. Lorenzo conobbe gli altri e da lì riprendemmo il Cammino, direttamente attraverso il bosco. Una tappa di passaggio, l’arrivo imminente, Santiago era sempre più vicino, lo sentimmo per la prima volta concretamente. Subidas y bajadas, salite e discese, attraversammo tanti borghi, Boente, Arzua, Salceda per arrivare, verso sera, a Pedrouzo, pronti per passare la nostra ultima notte lungo il Cammino. L’ultima notte prima di Santiago. La distanza era di soli 20 chilometri ormai e i nostri volti lo comunicavano timidamente. La nostra ultima cena la dedicammo a noi, a cucinare insieme i piatti dei nostri paesi di origine. Io e Lorenzo preparammo una pasta pomodorini e mozzarella. Per la prima volta mi sentii fare i complimenti per la cucina.
Ognuno di noi, prima di ritrovarsi per un’ultima sera insieme, tra Estrella e racconti (e anche Lorenzo ne aveva da raccontare), si isolò a ripensare, e a scrivere, la distanza temporale e metaforica che ci separava da casa. Più di cento chilometri fa, pensai, ero scesa da un autobus a O Cebreiro, del tutto impreparata ma con il solo e unico desiderio di immettermi senza pensiero per questa strada. Ripensai all’università, ma era così importante non averla ancora trovata? Ripensai al mio fidanzato, ma poi io lo amavo veramente? Tutto mi sembrò così poco importante, in quel momento. In quel momento, ero lì, e lì era anche Angela, che grazie al suo “buon gusto” in fatto di scarpe mi salvò dalla perdizione di un Cammino senza meta, lì era Maria che aveva lasciato persino il suo lavoro e che mi insegnò l’importanza di darsi il tempo, erano Oscar, recidivo e umorista, era Antonio che mi fece pensare ai miei settant’anni, sarei mai riuscita a fare quello che aveva fatto lui? Era Lorenzo, che dopo un mese di solitudine e fame, era arrivato lo stesso, senza bar e albergue ad aiutarlo, con l’intento di non fermarsi mai. Ero io, ed erano loro, eravamo noi. La notte passò, su questi pensieri, e l’alba era già arrivata.
Pedrouzo – Santiago di Compostela (19,7 km)
Quando si va verso un obiettivo è molto importante prestare attenzione al cammino. È il cammino che ci insegna sempre la maniera migliore di arrivare, e ci arricchisce mentre lo percorriamo
(Il cammino di Santiago, Paolo Coelho)
L’arrivo davanti alla Cattedrale lo facemmo per mano, una catena di sei persone che fino a una settimana prima non sapevano neanche chi fossero o dove sarebbero andate. Occhi chiusi, corremmo fino al centro, lì aprimmo. Il ricordo del mio primo sguardo posato sulla Cattedrale, dopo tanta attesa e tanto andare, ben 150 chilometri di passi, tendinite e forza di volontà, è leggermente deludente. Si tratta di una mia personale opinione, Maria si mise a piangere, Oscar si sdraiò a terra, Angela urlò. Io, da parte mia, rimasi in piedi, gli occhi rivolti alla facciata, la mente sovrappensiero. «Maravillosa no?» mi disse Oscar. Quella sera la paragonai alla fine di un’era, la fine della scuola, la fine degli esami, non saprei. Le strade, vicoli e vicoletti dalle sembianze liguri, erano ricolmi di persone giovani e no che saltavano, ballavano, gridavano. La gioia della fine, e non della fine come perdita, ma della fine come traguardo era dentro tutti loro. Un’ondata dopo l’altra, ora tutte, in tempi diversi si riunivano. Andammo all’Ufficio del pellegrino di Santiago, in rua Carretas, per ricevere il famoso attestato, la Credencial, il nostro “trofeo”. Di lì, poi, solo festa, congratulazioni, abbracci e molto altro ancora. Fu la nostra ultima notte insieme, come quella prima la era di cammino. Il giorno dopo molti sarebbero tornati alle loro vite, Maria al suo ufficio, Oscar alla sua famiglia, Angela a Londra. Io, invece, mi decisi di proseguire. Rimasta leggermente delusa dal volto di Santiago Cattedrale (i vicoli invece mi affascinarono molto di più), volli vedere un altro volto, quello del cippo km 0. Perché sì, in realtà, Santiago non è il chilometro Zero. Il Chilometro Zero si trova ancora più avanti, sul confine con il mare, l’Oceano. Alla fine del mondo.
Santiago di Compostela – Finisterre (90 km)
Alla fine del mondo, finis terrae, si può arrivare sempre in Cammino. Io, senza rimorsi, decisi di andare in bus, anche perché la tendinite non era ancora del tutto guarita. Finisterre si trova a 90 chilometri. Arrivai la mattina presto, tre ore circa di autobus, e mi misi a camminare per l’ultimo tratto, verso l’ultimo cippo. Il cammino prese ad andare in salita, una pendenza lieve, panoramica, intorno a un monte alla mia destra e racchiuso dall’Oceano alla mia sinistra. Sulla cima il cippo. Sulla cima il chilometro Zero. Sulla cima la fine del mondo. Ai tempi pensavano che qui finisse la parte occidentale della terra, era la punta più a Ovest della terra sommersa. Mi guardai intorno e sorrisi. Non so se questa narrazione me la creai io lì per lì, o se un qualche filo nascosto vi fosse. Sta di fatti che proprio in quel momento compresi perché la facciata della Cattedrale non mi aveva illuminato. Mancava qualcosa. Qualcosa di cui solo lì mi resi conto. Il mare. L’acqua. L’orizzonte. Avevo vissuto la mia vita di fronte al mare e, anche se non lo vedevo tutti i giorni, di mare mi nutrivo, del suo profumo e del suo suono. Ora, alla fine del mondo, di nuovo lo ritrovavo. Ora di nuovo ero a casa. Raccolsi metaforicamente la mia concha, proprio come i pellegrini di tanto tempo fa, e me la misi in tasca, pronta a volgere lo sguardo verso un nuovo Cammino.